Scandriglia – Monte Serrapopolo
- Punto di partenza : Scandriglia
- Tempo di percorrenza : 4 ore 30 minuti
- Dislivello : 700 m
- Segnavia : rosso-bianco-rosso, n. 311
- Difficoltà : medio-bassa. Il tratto iniziale e l’ascesa alla cima del Monte Serrapopolo sono caratterizzati da pendii fortemente acclivi
- Massima altitudine : 1150 m
- Dove nei Monti Lucretili : versante nord-occidentale sabino
- Come arrivare alla partenza : l’itinerario ha inizio dal centro di Scandriglia percorrendo il sentiero che conduce al convento di S.Nicola
Periodo consigliato: tutto l’anno, da evitare le giornate di tempo incerto e ventoso in quanto questo settore montano risulta particolarmente esposto ai venti occidentali.
Ci troviamo nel settore nord-occidentale dei Monti Lucretili, in quella porzione di territorio dove si apprezza maggiormente il paesaggio tipicamente sabino delle dolci colline e dei pendii costantemente acclivi caratterizzati dal geometrico disegno degli oliveti bruscamente interrotto ad oriente da una discontinuità morfologica rappresentata da un corrugamento montuoso così netto da esser definito dalla toponomastica, Monte Serrapopolo. Come già detto nella scheda introduttiva l’itinerario risulta di media difficoltà, un piccolo sforzo di orientamento ci permetterà di superare le tre vallecole boscose che si interpongono e limitano la visuale della costante ascesa lungo la dorsale M.Percalli-M.Serrapopolo. Mantenendo questa direttrice si eviterà di incappare in piccoli incidenti di percorso dovuti all’intersecarsi di piste aperte dal bestiame brado. Ciò che balza immediatamente agli occhi dell’osservatore è la prospettiva della dorsale, quasi una cresta, che si apprezza poco dopo aver oltrepassato il Convento di S.Nicola; l’orientamento con asse appenninico e la percezione dell’assetto tettonico dei Monti Lucretili è qui forse meglio che altrove evidente. Siamo, infatti, proprio al limite tra due delle quattro unità strutturali della falda sabina, l’unità 3 definita dalla superficie di sovrascorrimento torrente Licenza-M.degli Elci- M.Tancia (cima deiMonti Sabini occidentali) e l’unità 4, linea Olevano-Antrodoco particolarmente importante in quanto segna la successione dei sovrascorrimenti delle unità sabine su quelle appartenenti al dominio laziale-abruzzese, ovvero nella deformazione e sovrapposizione tettonica di sedimenti marini del Lias superiore e del Trias inferiore, (cfr. parte generale). Il tranquillo paesaggio delle collinette dalle morfologie dolci che si estende ai piedi della dorsale appare costituito da formazioni sedimentarie plioceniche di ambiente marino mentre alla base dei versanti risaltano gli accumuli detritici risultato dei processi erosivi di smantellamento dei gruppi montuosi.
Convento di S.Nicola
Particolarmente interessanti e meritevoli di attenzione sono gli aspetti vegetazionali; l’escursione attraversa gli ambienti delle rupi calcaree esposte sui versanti sabini sede di formazioni rupicole a leccio prevalente inoltrandosi nei versanti interni fino alle quote più elevate osservando il bosco misto dominato da prevalenza di carpino e roverella lasciare spazio ai consorzi di transizione al faggeto con acero di monte, acero d’Ungheria e cerro e alle localizzate cerrete. La storia dei luoghi è sottolineata dalla presenza dell’eremo dei cappuccini di San Nicola, pregevole esempio di architettura religiosa arroccato su uno sperone calcareo; purtroppo il complesso versa attualmente in un forte stato di degrado che ne rende sconsigliata la visita. Luogo di estrema solitudine il Monte Serrapopolo può offrire incontri diretti e fornire indicazioni sulla fauna che frequenta questo settore montano.
L’itinerario ha inizio dal paese di Scandriglia, bel centro sabino legato alla memoria della martire cristiana Barbara di Nicomedia attuale patrona del paese. Il centro storico conserva numerosi elementi architettonici di estremo interesse per la lettura delle tipologie edilizie medievali sabine come, ad esempio, lo splendido prospetto del palazzo di giustizia degli Orsini con bifora e portale finemente decorato. Alla partenza del sentiero per il convento si può osservare un’area destinata a ricovero armenti e attrezzature agricole che costituisce un’interessante sosta utile alla lettura di quelle tracce più labili del passato agropastorale e forestale del luogo. Si tratta di un’area destinata dalla collettività ad attività di supporto agricolo che conserva alcuni degli ultimi esempi di capanne dell’intero territorio del parco ma in generale della più vasta area dell’appennino laziale. Esempi testimoni di una struttura logistica ad uso abitativo stabile e stagionale rimasta in uso fino alla fine degli anni ’30 anche in molte zone della Campagna Romana. Attualmente i più rappresentativi si trovano nel sud-pontino sulle pendici dei Monti Lepini, Ausoni ed Aurunci (paesi di Monte San Biagio, Lenola). Purtroppo va registrata una costante diminuzione del numero delle strutture rurali, più che dimezzate negli ultimi sei anni (L.Giacopini, D.Mantero, 1994, redazione del Piano di assetto del Parco: Relazione sistema storico culturale: dalla preistoria al medioevo). La capanna tipica dei Monti Lucretili veniva costruita con tetto a doppio spiovente, talvolta prolungato fino a terra e sostenuto da due pali interni a copertura di una struttura con dimensioni variabili comprese tra i tre e i dieci metri di lunghezza come gli esempi di Scandriglia. La forma è tendenzialmente ovoidale con l’apertura sul lato corto, soventemente perimetrata da un muretto in opera a secco che cinge il corpo dell’ambiente unico fino allo spiccato del tetto. L’interesse di questa architettura è dato dall’antichità stessa della tipologia costruttiva, ben attestata e sostanzialmente identica nella planimetria ai contesti archeologici dell’età del Bronzo e del Ferro; l’uso di materiali di provenienza locale, l’economicità e la sostanziale adattabilità ai vari ambienti, dalle pianure costiere all’alta montagna con differenti accorgimenti, ha influito sullo sviluppo e la diffusione della capanna dalle maremme tosco-laziali alle più alte cime dell’Appennino. Nel nostro caso, come più in generale nel settore del preappennino e Appennino laziale centro e sud-occidentale, per realizzare la copertura del tetto e talvolta delle pareti è stata impiegata una graminacea di origine nord-africana il cui areale settentrionale comprende i versanti soleggiati del nostro sistema montuoso: il tagliamani (Ampelodesmos mauritanicus) noto talvolta localmente con il nome “stramma”. Ampiamente diffuso sui suoli e versanti rupicoli calcarei ben esposti veniva raccolto e lavorato al fine di realizzare coperture sulle quali l’acqua meteorica e l’umidità della notte scivolassero rapidamente. Carbonai, pastori transumanti e contadini hanno vissuto per intere generazioni in queste capanne, spesso riunite in veri e propri agglomerati i cui abitanti venivano definiti dal termine “capannari”. L’uso di nuovi materiali, onduline metalliche per le coperture ecc., pur alterando l’aspetto originario, denuncia il tentativo importante del mantenimento di una architettura dalla storia antichissima ma tuttavia così fragile che corre il pericolo imminente di una definitiva scomparsa. . La prospettiva strapiombante della rupe dell’eremo di San Nicola, prima meta del percorso, non deve scoraggiare l’escursionista dall’intraprendere l’ascesa; in effetti sono solo due i tratti di percorso caratterizzati da forti dislivelli, il primo all’attacco iniziale e il secondo per raggiungere la cresta del Monte Serrapopolo. Una serie di tornanti caratterizzano la prima parte di sentiero recentemente sistemato con il ripristino del fondo e con la sistemazione di palizzate in castagno di protezione e scale lignee per il superamento dei dislivelli. Immediatamente ci si immerge in un fitto bosco che ricopre i versanti acclivi del Monte Percalli. Si tratta di un bosco caratterizzato dalla presenza di carpino nero (Ostrya carpinifolia), acero oppio (Acer campestre), roverella (Quercus pubescens) e localizzato cerro (Quercus cerris). Lo stato del bosco risente della vicinanza del centro abitato; tagli e ceduazioni hanno determinato un generale assetto arbustvo delle formazioni forestali. Tuttavia sviluppandosi su un pendio fortemente acclive il fitto bosco concorre alla stabilità del suolo sui versanti.
Giunti dopo circa trenta minuti all’eremo di San Nicola il percorso prosegue con andamento meno acclive lungo il terrazzo orografico della balconata rupestre sulla quale è stato edificato il complesso religioso. L’eremo è costituito da una serie di corpi annessi, aggiunti in periodi diversi, disposti su piani differenti. Tentativi di recupero funzionale della struttura sono stati operati più volte, anche in tempi recentissimi ma le condizioni di profonda instabilità della rupe calcarea, caratterizzata da un orlo profondamente fessurato e da affioramenti di livelli a calcari marnosi, richiederebbero sforzi di consolidamento elevati a partire dalle fondazioni stesse. A tal proposito occorre ricordare, come già segnalato in loco, la pericolosità nello stazionare all’interno e nelle immediate vicinanze dell’edificio. Lungo il margine del terrazzo sottostante si aprono piccole cavità nella roccia che furono in parte utilizzate come ossuari dalla comunità religiosa. L’ambiente circostante è lo stesso che si apprezza anche negli altri complessi, conventi ed eremi, della Sabina; anche in questo caso si conservano bellissimi esemplari centenari di leccio (Quercus ilex) abbarbicati sulle rocce, mentre alcuni cipressi (Cupressus sempervirens) di notevoli dimensioni svettano poco oltre l’eremo. La conservazione di lembi di vegetazione attigua ai luoghi sacri, la stessa che ha permesso lo sviluppo di esemplari centenari, vere e proprie anomalie in un contesto forestale dominato dalla pratica della ceduazione, riporta in qualche modo la memoria ai boschi sacri di classica menzione, così come la scelta delle essenze che, anche se dettata dalle condizioni climatiche e quindi fitogeografiche dell’area, spesso vedeva protagonisti preferenziali i grandi “elci”, lecci, alberi dalla fronda cupa e dall’aspetto misterioso insieme ad arbusti come il bosso che rappresentavano la longevità. Il leccio (Quercus ilex) è facilmente riconoscibile dall’osservatore che si pone alla base del contrafforte carbonatico: il verde cupo delle fronde sottolinea l’andamento orizzontale dell’orlo del terrazzo orografico spesso legato all’esistenza di faglie, il contrasto con il resto del manto forestale è ancor più netto nel periodo invernale durante il quale la foresta caducifoglie e le roverelle si uniformano nei cromatismi bruno-dorati. Una stazione di bosso (Buxus sempervirens) è presente a destra del sentiero immediatamente dopo aver superato l’eremo. Si tratta, con ogni probabilità, di essenze in parte sfuggite a coltura; di fatto questa pianta caratterizzata da una crescita lenta si trova ormai maggiormente presente in forma coltivata. Ampiamente utilizzata nella realizzazione di siepi nello schema geometrico dei giardini all’italiana, allo stato selvatico risulta rarefatta e ormai presente al solo stato arbustivo; gli esemplari arborei sono stati in passato abbattuti per le particolari caratteristiche del legname duro ed indeformabile. Localizzate stazioni naturali si rinvengono nel contesto regionale in ambienti di sottobosco e di forra fluviale e torrentizia. Proseguendo il sentiero, dopo pochi minuti, si apre una bella veduta sulla campagna sabina e soprattutto sull’antico centro di Scandriglia. Adattato perfettamente, per motivi difensivi, al rilievo appartenente all’estreme propaggini del massiccio carbonatico, il paese presenta il caratteristico schema planimentrico di origine medievale a “fuso”che in parte si fonde con quello che viene chiamato “schema focalizzato” avvolgente, caratteristico di un adattamento alle morfologie dei luoghi, ma influenzato, tuttavia, da fenomeni riorganizzativi del tessuto urbano intorno ad un centro di potere o autorità politica, spesso nel caso dei Lucretili rappresentato dal fenomeno dell’incastellamento. Il paesaggio circostante è dominato dall’estensione degli uliveti che si impostano indifferentemente lungo i versanti detritici terrazzati e sulle colline argillose. Il percorso, per un tratto protetto da una staccionata in castagno, supera un accesso pedonale realizzato per contenere il bestiame brado; la composizione del bosco comincia a mutare passando ad una più netta preponderanza di cerro (Quercus cerris) associato a carpino. La composizione del consorzio floristico vede la presenza dell’acero d’Ungheria e dell’ Acero di monte (Acer pseudoplatanus) che diventerà sempre più presente nel procedere verso quote elevate. Il percorso devia verso sud-ovest a seguire la dorsale principale; il tracciato ben evidente in questo tratto si apre nel bosco con una sede larga ricavata sul soprassuolo calcareo affiorante. Particolarmente suggestivi i giochi di luce del sole filtrante e radente che illuminano i calcari ricoperti da muschi. Dopo circa venti minuti si giunge alla prima di una serie di radure posta sulla cima di Monte Percalli (850 m slm). Si tratta di uno di quei pascoli montani creati dai pastori e utilizzati nei percorsi della transumanza interna al massiccio; caratterizzati da pascoli cespugliati e con una cotica erbosa rarefatta su substrato litoide fortemente permeabile come il calcare, costituiscono delle piccole praterie xeriche tuttavia importanti per gli armenti e nello stesso tempo necessarie alla sopravvivenza di alcune specie animali selvatiche dell’area. I grandi uccelli da preda, primo fra tutti l’imponente aquila reale (Aquila chrysaetos) presente nell’area come nidificante e del cui territorio di caccia l’intera dorsale montuosa è parte, necessitano di spazi aperti sui quali poter volteggiare e catturare le prede altrimenti nascoste dal fitto della vegetazione. Sono anche gli ambienti nei quali incontrare rari uccelli quali la coturnice (Alectoris graeca) che in piccole brigate fa la sua veloce comparsa con piccoli voli e balzi tra le rocce. Qui il percorso diviene meno leggibile, bisognerà comunque mantenersi sulla dorsale evitando di scendere lungo lo spartiacque settentrionale o nella opposta vallecola del Pero. Sulla destra lasciamo un’area rimboschita con specie alloctone come il pino insigne (Pinus radiata) originario della California. Una costante traccia che tradisce la presenza di un altro animale, anch’esso in qualche modo estraneo al contesto, è costituita dalla lettiera e dai rovistamenti del suolo del cinghiale (Sus scrofa) che in cerca di cibo setaccia analiticamente ogni recesso utile. Le reintroduzioni operate a fini venatori del cinghiale di provenienza est-europea in tutta la penisola hanno di fatto comportato la rarefazione della varietà italica. Tuttavia l’aumento, a volte esponenziale, delle popolazioni di cinghiale lungo l’arco appenninico ha sicuramente contribuito al ristabilimento numerico e alla diffusione su vasti territori del lupo (Canis lupus) che preda i cuccioli e gli esemplari giovani, vecchi e malati. Sui Monti Lucretili solo da pochi anni si è ristabilito un piccolo nucleo di lupo che frequenta maggiormente il settore nord-orientale del parco, tra cui i versanti e la dorsale del Monte Serrapopolo. Prestando attenzione si possono osservare tracce della presenza del predatore costituite da orme lasciate sul fango e dagli escrementi analoghi a quelli di un cane ma spesso contenenti pelame delle prede. Un’altra caratteristica tipica di varie specie di mammiferi territoriali, è quella di lasciare le feci su passaggi evidenti, luoghi di demarcazione del territorio. Frequentemente si osservano gli escrementi di mustelidi sui massi o su tronchi posti ai lati dei percorsi e delle piste degli animali.
Ginepro (Juniperus communis)
Lungo il percorso già da qualche tempo si notano alcuni esemplari isolati di ginepro (Juniperus communis) che preludono le radure orientali soprastanti Orvinio dove la presenza del ginepro diviene predominante mentre dal generale contesto boschivo di piccola taglia spiccano esemplari di cerro di maggiori dimensioni concentrati nelle vallecole interne. Rarissimi agrifogli (Ilex aquifolium) crescono nel fitto del bosco; in effetti l’essenza è più presente nelle aree interne e sommitali del massiccio del Monte Gennaro spesso in associazione con la faggeta. Dopo circa un quarto d’ora si raggiunge un’altra piccola radura caratterizzata dal litotipo calcareo affiorante e conformato dall’erosione delle acque meteoriche su cui cresce una vegetazione rada costituita da esemplari isolati di roverella. Mantenendosi in quota lungo il crinale si segue l’andamento debolmente acclive del percorso segnato dai segnavia. Presto si raggiunge la cima del Colle Vallepecorara a quota 982 metri sul livello del mare; da qui si apprezza un colpo d’occhio sulla movimentata morfologia del cuneo settentrionale del Parco, rappresentato dal versante occidentale del piano inclinato di Monte Pendente e dei bacini imbriferi delle incisioni di Cima Casarene-Colle Lepre, Colle delle Mura, Colle Cantalupo. Si tratta di una delle aree più selvagge e fittamente coperte da boschi dell’intera area protetta; zona poco frequentata dall’uomo costituisce un rifugio adatto per la fauna selvatica. Il sentiero si snoda nuovamente all’interno del bosco sempre lungo il crinale della montagna, mantenendo una costante pendenza debolmente acclive. Si percorrono piccoli terrazzi localizzati sui quali rigogliosa si sviluppa una vegetazione arborea. Superato un tratto poco evidente in cui la traccia principale del sentiero è talvolta confusa con le di piste intersecanti prodotte dal passaggio degli animali al pascolo, si raggiunge e si supera un’altra piccola radura. Poco oltre si può notare sulla destra un bellissimo esemplare di ginepro le cui dimensioni tradiscono l’età della pianta. Una curiosa concentrazione di ciottoli e scaglie calcaree sparse sul suolo forestale disposte a raggiera intorno ad un centro indicano la presenza di un elemento di origine antropica. Una platea di forma rettangolare lunga oltre dieci metri e larga più di cinque, definita dalla presenza di grossi esemplari arborei che si sviluppano su di essa, indica la esistenza di un sito archeologico. Laterizi e frammenti di embrici, insieme alla presenza di macere e di almeno un muro (visibile in sezione) costituito da un nucleo in ciottoli e scaglie legati da una matrice argillosa, farebbero pensare alla presenza di uno dei numerosi insediamenti a carattere militare relativi all’espansionismo romano a spese delle popolazioni italiche dell’area impiantati durante le lotte contro gli Equi. L’interesse del sito è sottolineato dalla posizione lungo la dorsale settentrionale del Monte Serrapopolo in posizione dominante come altri analoghi insediamenti individuati nell’area, ad esempio l’insediamento su Cima Casarene o il più importante su Monte Castellano (Orvinio). La lettura del contesto archeologico risulta evidente ad un occhio esperto ma potrebbe passare inosservata all’escursionista che dovrà prestare particolare attenzione alle anomalie del terreno costituite dall’accumulo di ciottoli e dalla forma più o meno regolare della struttura ubicata sulla destra del percorso di andata. Nelle immediate vicinanze poco oltre il sito archeologico si nota una piazzola delimitata da una macera a secco curvilinea addossata ad una paretina calcarea; la struttura che si presenta è simile a quelle realizzate per le carbonaie tuttavia è probabile che si tratti invece di uno spazio creato per coltivi, annesso al sito precedentemente descritto. Il sistema delle “cese” ampiamente praticato in ambiente montano fino in tempi recenti consisteva nello spietramento di piccoli fazzoletti di terra, le cese appunto, strappati ai versanti calcarei e adibiti a sede di piccoli orti; spesso delimitati da macere di contenimento, in altri casi erano realizzati all’interno degli avvallamenti stessi del substrato litoide. Il diffuso uso è testimoniato, tra l’altro, da analoghi rinvenimenti in altri siti d’altura anche storicamente più antichi come l’insediamento della prima Età del Ferro ubicato sulla cima di Monte Morra presso San Polo dei Cavalieri. Il percorso continua all’interno di un bosco ceduo misto, di transizione al faggeto dove spicca la consistente presenza dell’acero d’Ungheria e dell’acero di monte. Superato il ciglio rialzato di una vallecola ombrosa che costituisce il punto di partenza per l’ascesa vera e propria al domo carbonatico del Serrapopolo, il percorso diventa appena percettibile; è consigliato mantenersi in posizione centrale, deviando leggermente verso ovest e mantenendosi così sulla direttrice della dorsale. Siamo nella vallecola che divide il rilievo minore di Colle Vallepecorara dalla più alta elevazione del gruppo principale. L’interesse di questo tratto è costituito dalla presenza sul ciglio e nel fondovalle di piccole strutture circolari realizzate in opera a secco il cui significato rimane problematico. La mancanza di suoli carboniosi all’interno escluderebbe la loro pertinenza a lavorazioni per la produzione di carbone mentre potrebbe trattarsi, tesi avvalorata anche dal toponimo stesso – Vallepecorara – di strutture di ricovero come capanne usate durante la transumanza interna. In effetti le strutture sono poste in una sella di attraversamento di questo corrugamento con direttrice ovest-est concentrandosi in un’area che pur di crinale risulta riparata da una vallecola. Tracce di macere e piazzole di contenimento dei suoli si individuano in una vallecola nelle immediate vicinanze: non è escluso che si tratti, in questo caso, di sistemazioni atte ad ospitare carbonaie. Immediatamente oltrepassato questo avvallamento si raggiunge una radura dalla quale si staglia netta la mole dal profilo “laminare” del Serrapopolo. Il versante occidentale è caratterizzato da un profondo salto di quota, uno dei maggiori del massiccio lucretile. L’incassata valle del fosso S.Angelo si apre in direzione delle rovine dell’insediamento rupestre omonimo ubicato in territorio di Montorio Romano. Da questo punto si apprezza la differenza delle formazioni boschive influenzate dall’esposizione dei versanti: il versante meridionale di Monte Pelato colonizzato da consorzi a sclerofille sempreverdi come il leccio, si oppone ai boschi misti caducifoglie dei versanti interni o esposti a settentrione.
Monte Serrapopolo
Il sentiero procedendo si imposta a mo’ di gradinata sull’affioramento degli strati inclinati di 90° che danno la netta sensazione di trovarsi sul sovrascorrimento descritto nell’introduzione al percorso. Una serie di balzi e superamenti di salti di quota permettono in breve tempo, circa trenta minuti, di giungere sulla cima del Monte Serrapopolo dopo aver superato gli ultimi lembi boscati che ricoprono il versante. Segnalata da due croci metalliche in realtà la cima è una dorsale che si mantiene in quota per oltre cinquecento metri in direzione meridionale. Il vasto pianoro che si apre alla vista è caratterizzato dal classico ambiente di prateria pascoliva xerica che solo nei settori digradanti meridionali e orientali si evolve verso un pascolo cespugliato con grossi isolati cerri. Balcone di visuale preferenziale sulla Sabina, lo sguardo spazia ben oltre a raggiungere l’area falisca con il Monte Soratte, il complesso cimino e i Monti della Tolfa, i Sabatini, e verso nord la dorsale appenninica umbra dei Monti Martani e i più vicini Monti Sabini. Netta si delinea la maggiore elevazione laziale dei Reatini, il Terminillo, con il prolungamento settentrionale marchigiano del gruppo dei Sibillini. Il massiccio abbruzzese del Velino-Sirente si staglia verso est a formare una insormontabile muraglia ancor più evidente durante l’inverno per il completo innevamento. Ma soprattutto da questo punto si coglie la vastità dell’area protetta estesa circa 18.000 ettari, apprezzandone la movimentata morfologia montuosa con i paralleli allineamenti delle dorsali, prima fra tutte quella meridionale del Monte Pellecchia che con i suoi 1368 costituisce la vetta più elevata del Parco. La discesa dal Monte Serrapopolo e l’intero percorso di ritorno segue la stessa via obbligata, lungo il crinale montuoso ma richiede ulteriori due ore di cammino; facendo attenzione ad evitare le tracce e le piste laterali che invece conducono verso le valli interne al gruppo.